GIACOMO DANESI, Ricerca araldica. Stemma della provincia (Brescia), Gussago 2005, pp. 45.

L’araldica comunale da anni, attraverso ricerche, raccolte e saggi di studiosi ben preparati cerca di uscire di minorità, uniformandosi agli standard di una disciplina critica e storica come le altre – nel quadro più vasto di una storia della simbologia e dell’iconologia occidentale.

Nel campo in Europa, pur con risultati altalenanti, si è fatto molto: esistono ormai decine di raccolte o stemmari comunali distrettuali, regionali o nazionali di elevata qualità, sia in paesi di antica tradizione (Belgio, Germania, Svizzera etc.) sia in piccoli stati solo di recente divenuti o ritornati indipendenti (Lituania, Slovacchia etc.) e di interessanti siti web.

La presenza di organismi come l’Académie internationale d’héraldique stimola con pubblicazioni specialistiche e congressi anche questo settore della ricerca araldica rimasto spesso un po’ indietro e sul quale, come lamentava Michel Pastoureau, non c’è ancora una sintesi scientificamente attrezzata. In Italia si è registrato negli ultimi decenni qualche passo avanti, in un panorama generalmente arretrato rispetto ad altre esperienze continentali, ma ultimamente la materia sembra tornata pascolo di apprendisti e dilettanti di profilo piuttosto basso.

Al farraginoso, ma molto letto e diffuso manuale di G. Santi-Mazzini (Araldica. Storia, linguaggio, simboli e significati dei blasoni e delle armi, Milano 2003), un lavoro che il segretario dell’Académieinternationale d’héraldique, Roger Harmignies, ha giustamente definito «une catastrophe scientifique», e che non cesserà di disorientare i cultori di araldica per decenni, si sono aggiunti due stemmari molto difettosi recentemente editi (quello della Liguria e della Provincia di Bergamo), e, da ultimo, una serie di opuscoli monografici, a firma di Giacomo Danesi, su Lo stemma della provincia di Brescia e su alcuni comuni della stessa provincia (Cazzago, Bione, Borgosatollo etc.). Degli opuscoli del Danesi, occorre dire subito che si tratta di lavori divulgativi, anche se, dal sottotitolo di “ricerca” che li fregia, sembra di capire che l’A. ambisca a presentarli sotto il profilo dell’apporto storico-erudito. Ad una lettura non superficiale, appare tuttavia abbastanza chiaro che i testi non hanno i requisiti per figurare dignitosamente in una queste tipologie letterarie. L’araldica è in effetti trattata in questi opuscoli, non come una disciplina storica, ma semplicemente come un soggetto degno di curiosità. Di fatto, lo specialista non apprende sostanzialmente niente di nuovo e il “curioso” locale o profano si vede presentare una massa di nozioni e una documentazione delle quali non crediamo possa afferrare il senso.

Per spiegare a un profano il significato dell’araldica, l’A. ha intrapreso una strada discutibile. Partendo dalla coda e non dalla testa, e cioè dai decreti di riconoscimento e concessione, cioè dalla logica e dalla prassi normativa e burocratica, come si venne delineando a fine Ottocento, e poi più ampiamente tra anni Venti e Trenta del Novecento, all’interno di quella istituzione del regno d’Italia che fu la Consulta araldica.

Di questa istituzione e della sua evoluzione l’A. non contestualizza sostanzialmente nulla: né si chiede come essa abbia operato nell’ambito dell’araldica comunale, quale ideologia soprassedesse alla codificazione, via via più astratta e vincolante, delle sue disposizioni, come e se abbia costretto e coartato la mobile, variopinta e complessa storia dell’araldica comunale italiana, dentro un quadro uniforme (e piuttosto grigio) in ossequio al centralismo sabaudo e al gusto grafico di un’epoca determinata, contrabbandato per “norma” senza tempo.

Per simili questioni l’A. non sembra mostrare interesse alcuno: né per il singolare passaggio dalla Consulta agli attuali Uffici araldici centralizzati, avvenuto quasi senza scosse, nel generale disinteresse degli organi legislativi; passaggio che ha determinato una situazione giuridica e normativa quanto mai bizzarra, indifferente alle profonde modifiche costituzionali del Paese dal 1946 ad oggi, e al mutamento del quadro normativo delle autonomie locali, dal 1970 fino alla più recente legge comunale. Il lettore è posto di fronte a decreti, a scelte simboliche, a filze di carteggi, che non illuminano quasi mai sulla storia dello stemma di un comune, ma solo sulla sua cronaca esterna, spesso disordinata e distratta. A monte di questa insensibilità storica dell’A. per i modi in cui è stata costruita l’araldica comunale nell’Italia moderna, c’è, si direbbe, quella – ancora più grave – per l’evoluzione storica dell’araldica comunale nel suo complesso, le sue declinazioni locali, i suoi presupposti. Da qui, nei lavori del Danesi, l’inesistenza di una seria ricerca filologica, l’atteggiamento passivo rispetto alle dicerie incontrollate, la sostanziale inconcludenza, lo scarso rispetto per i dati storici, iconografici e documentari (superficialmente interpretati), l’attenzione soverchia dedicata a dettagli tecnici irrilevanti: in altre parole, mancanza di curiosità per la sostanza storica del fenomeno araldico e per come l’araldica si è da un migliaio d’anni inserita nel sistema dei segni identitari e come li abbia prodotti.

Il Danesi non compie nessuno sforzo di collegare l’araldica alle discipline collegate, in primo luogo la sfragistica, fonte imprescindibile, in particolare per l’araldica comunale; non attua nessun esame comparativistico (l’araldica comunale non si comprende senza una considerazione dei diversi “spazi storici” in cui opera, ciascuno con una sua evoluzione specifica); né mostra – a giudicare dalla sua ridottissima bibliografia – una conoscenza adeguata della letteratura specializzata, che è poi il prerequisito minimo per poter fare divulgazione. Non palesa infine un’autentica considerazione dell’evoluzione stilistica dell’araldica e del suo linguaggio nei vari periodi storici, limitandosi troppo spesso a segnalare dei presunti “errori” rispetto a una norma, ma nessun concetto della flessibilità, dinamicità e persino contradditorietà del segno araldico.

L’araldica è considerata dal Danesi come un tutto omogeneo, senza storia, fatto di regole astratte, senza tempo, in definitiva come una disciplina priva di senso storico. Ognuno dei volumetti dedicati agli stemmi comunali tocca insomma solo la superficie della loro storia: senza mai entrare nello specifico.

Il volumetto sullo Stemma della provincia di Brescia, ad esempio, sorprende per la mancanza di un’analisi dell’origine dello stemma del capoluogo, sul quale sono state scritte molte (e non sempre adeguate) pagine, che andavano discusse; e, di più, sorvola letteralmente sulla storia ed evoluzione degli stemmi dei 4 capoluoghi di circondario di cui si compone: di alcuni dei quali, come Chiari, Salò e Breno, andavano vagliate l’iconografia storica, le fonti e la complessa vicenda. Non si può infine non sorvolare sui molti luoghi comuni, che compaiono nel “glossario” che chiude i volumetti: un’antologia di ingenuità che gli studiosi hanno abbandonato da almeno due secoli (p.e. sul significato allegorico delle varie figure e dei colori, come il «verde» che «allude ai campi primaverili» o l’«azzurro» che «essendo il colore del cielo simbolizza tutte le idee più alte» e come tale colore, scrive l’A., preferito da Cicerone nel suo abbigliamento!, pp. 37-38). Non si educa il pubblico ad una conoscenza dell’araldica e dell’araldica comunale, come viene fatto con bel altra consapevolezza in diversi paesi europei, riproponendo un approccio così obsoleto alla materia. Né si potrà omettere di dire delle inesattezze e della fumosità che costellano il “glossario”; basterà citare le seguenti definizioni, in cui l’araldista stenta a raccapezzarsi: l’«arma» è definita «lo scudo insieme alle pezze araldiche e agli smalti»; le «figure araldiche» come «tutto ciò che si può mettere in uno scudo per formare uno stemma»; le «partizioni» sarebbero una «figura araldica che determina le divisioni dello scudo secondo le direzioni araldiche»; le «pezze araldiche» una «figura araldica costituita da figure naturali e artificiali che sono state alterate dall’araldica». La prosa restituisce una scarsa dimestichezza dell’A. col vocabolario tecnico-araldico.Un’ultima considerazione. L’avallo pubblico dato dalle amministrazioni locali a queste pubblicazioni, contribuisce ad accreditarle come semiufficiali. Il che costituisce un certo qual danno per gli araldisti seri che faticano su ricerche d’archivio ben documentate e che magari si vedranno respingere da qualche amministrazione la proposta di una pubblicazione o di uno stemmario, perché la materia risulta già “coperta”. In qualsiasi settore della vita pubblica c’è un filtro tecnico che gli Enti locali dovrebbero esercitare: non dovrebbero acquisire servizi senza le dovute garanzie che i servizi erogati siano tecnicamente validi. (Alessandro Savorelli)