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Araldica Eclesiastica

di Giorgio Aldrighetti

LO STEMMA

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STEMMA
di Sua Eccellenza Reverendissima mons.
ANGELO SCOLA
patriarca di VENEZIA
metropolita della provincia veneta
(prima di essere creato cardinale nel 2003)[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_tta_pageable][vc_tta_section title=”Sezione 1″ tab_id=”1458549096620-45b70fbe-b056″][vc_column_text]

BLASONATURA

“D’azzurro alla barca all’antica, d’oro, munita di un solo albero centrale cimato dalla crocetta, dello stesso, l’albero unito a quattro sartie d’oro, due e due in sbarra ed in banda, e ornato, sotto la crocetta dalla fiamma desinente in tre code, sventolante in banda, d’argento, la barca con due bandiere all’antica a poppa, d’argento, astate d’oro, la barca sostenuta dal mare di azzurro ondato d’argento e accompagnata nel canton destro del capo dalla stella di otto raggi, d’oro; al capo patriarcale di Venezia:

d’argento al leone passante, alato e nimbato, tenente con la zampa anteriore destra il libro aperto recante le parole nella prima facciata, in quattro righe, PAX TIBI MARCE, nella seconda facciata, similmente in quattro righe, EVANGELISTA MEUS, il tutto al naturale, con la scritta in lettere maiuscole romane di nero. Lo scudo, accollato ad una croce astile patriarcale d’oro, trifogliata, posta in palo, è timbrato da un cappello con cordoni e nappe di verde. Le nappe, in numero di trenta, sono disposte quindici per parte, in cinque ordini di 1, 2, 3, 4, 5. Sotto la scudo, nella lista bifida e svolazzante d’argento, il motto in lettere maiuscole di nero: SUFFICIT GRATIA TUA”.

ESEGESI

“Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l’uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l’uomo ha bisogno di segni e simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio”. 1)

“L’araldica è un linguaggio complesso e particolare costituito da una miriade di figure e lo stemma è un contrassegno che deve esaltare una particolare impresa, un fatto importante, un’azione da perpetuare.

Questa scienza documentaria della storia dapprima era riservata ai cavalieri ed ai partecipanti ai fatti d’armi, sia guerreschi che sportivi, che si rendevano riconoscibili grazie allo stemma, posto sullo scudo, sull’elmo, sulla bandiera e anche sulla gualdrappa, rappresentante l’unico modo per distinguersi gli uni dagli altri.

L’araldica dei cavalieri venne quasi subito imitata dalla Chiesa, anche se gli enti ecclesiastici in periodo avevano già propri segni distintivi, tanto che al sorgere dell’araldica, nel secolo XII, tali figure assunsero i colori e l’aspetto propri di quella simbologia.

L’araldica ecclesiastica al nostro tempo è viva, attuale e largamente utilizzata. Per un prelato, tuttavia, l’uso di uno stemma deve oggi essere definito quale simbolo, figura allegorica, espressione grafica, sintesi e messaggio del suo ministero. Occorre ricordare che agli ecclesiastici fu sempre vietato l’esercizio della milizia e il porto delle armi e per tale motivo non si sarebbe dovuto adottare il termine scudo o arme propri dell’araldica; tuttavia va detto che sino a tempi recenti gli ecclesiastici usavano il loro stemma di famiglia, molto spesso privo di qualunque simbologia religiosa.

La stessa simbologia della Chiesa Romana è attinta dal Vangelo ed è rappresentata dalle chiavi consegnate da Cristo all’apostolo Pietro”. 2)

Nel primo periodo gli stemmi ecclesiastici risultavano con lo scudo timbrato dalla mitria con le infule svolazzanti; con il passare del tempo si consoliderà, invece, alla sommità dello scudo il cappello prelatizio con i cordoni ed i vari ordini di nappe o fiocchi, di diverso numero secondo la dignità, il tutto di verde se vescovi, arcivescovi e patriarchi, il tutto di rosso se cardinali di Santa Romana Chiesa.

Annotiamo, inoltre, che con “L’Istruzione sulle vesti, i titoli e gli stemmi dei cardinali, dei vescovi e dei prelati inferiori” del 31 marzo 1969, a firma del cardinale segretario di Stato Amleto Cicognani, all’art. 28 si recita testualmente: “Ai cardinali e ai vescovi è permesso l’uso dello stemma. La configurazione di tale stemma dovrà essere conforme alle norme che regolano l’araldica e risultare opportunamente semplice e chiaro. Dallo stemma si tolgono sia il pastorale che la mitra”. 3)

Nel successivo art. 29 si precisa che ai cardinali è permesso di far apporre il proprio stemma sulla facciata della chiesa che è attribuita loro come titolo o diaconia.

Gli eccellentissimi e reverendissimi vescovi timbrano, infatti, lo scudo, accollato ad una croce astile semplice d’oro, trifogliata, posta in palo, con il cappello, cordoni e nappe di verde. I fiocchi in numero di dodici sono disposti sei per parte, in tre ordini di 1, 2, 3.

Gli eccellentissimi e reverendissimi arcivescovi timbrano lo scudo, accollato ad una croce astile patriarcale d’oro, trifogliata, posta in palo, con il cappello, cordoni e nappe di verde. I fiocchi in numero di venti sono disposti dieci per parte, in quattro ordini di 1, 2, 3, 4.

Gli eccellentissimi e reverendissimi patriarchi timbrano lo scudo, accollato ad una croce astile patriarcale d’oro, trifogliata, posta in palo, con il cappello, cordoni e nappe di verde.

I fiocchi in numero di trenta sono disposti quindici per parte, in cinque ordini di 1, 2, 3, 4, 5. 4)

Gli eminentissimi e reverendissimi signori cardinali di Santa Romana Chiesa timbrano lo scudo, accollato ad una croce astile patriarcale d’oro, trifogliata, posta in palo, con il cappello, cordoni e nappe di rosso. I fiocchi in numero di trenta sono disposti quindici per parte, in cinque ordini di 1, 2, 3, 4, 5.

Infine, l’eminentissimo e reverendissimo signor cardinale camerlengo di Santa Romana Chiesa porta lo scudo con lo stesso cappello degli altri cardinali, ma timbrato dal gonfalone papale, durante munere, ossia durante la sede vacante apostolica. Il gonfalone papale o stendardo papale, chiamato anche basilica, è a forma di ombrellone a gheroni rossi e gialli con i pendenti tagliati a vajo e di colori contrastati, sostenuto da un’asta a forma di lancia coll’arresto ed è attraversata dalle chiavi pontificie una d’oro e l’altra d’argento, decussate, addossate, con gli ingegni rivolti verso l’alto, legate da nastro di rosso.

Gli stessi colori di verde o di rosso vanno usati, altresì, nell’inchiostro dei sigilli e negli stemmi riportati negli atti, quest’ultimi con i previsti segni convenzionali indicanti gli smalti.

L’Antico ed il Nuovo Testamento, la Patristica, i legendaria dei Santi, la Liturgia hanno offerto, nei secoli, alla Chiesa i temi più svariati per i suoi simboli, destinati a divenire figure araldiche.

Quasi sempre tali simboli alludono a compiti pastorali o di apostolato degli istituti ecclesiastici, sia secolari che regolari, oppure tendono ad indicare la missione del clero, richiamano antiche tradizioni di culto, memorie di santi patroni, pie devozioni locali.

GLI SMALTI

Una delle norme fondamentali che regola l’araldica asserisce che chi ha meno ha più, con riguardo alla composizione degli smalti, figure e positure dello scudo.

E l’arme che ora andremo ad esaminare è composta dai metalli oro ed argento e dai colori d’azzurro ed al naturale. Cercare il proprio stemma, quindi, quello vero, da poter innalzare come vessillo, con il quale segnare le proprie carte, comprenderne compiutamente i simboli, non è, in qualche modo, cercare se stessi, la propria immagine, la propria dignità?

Ecco come un atto, che potrebbe essere letto solo formalmente, può acquisire invece un significato simbolico e fortemente pregnante.

D’oro e d’argento, d’azzurro e al naturale, quindi, nello stemma del patriarca Angelo, ma quali simboli racchiudono e sprigionano tali smalti, quali messaggi ne derivano per l’uomo, spesso frastornato, giunto, oramai, al XXI secolo?

I “metalli”, di oro e d’argento, araldicamente rappresentano e ricordano le antiche armature dei cavalieri che, secondo il rispettivo grado di nobiltà, erano appunto dorate o argentate; l’oro, inoltre, è simbolo della regalità divina mentre l’argento allude a Maria.

Il “colore” d’azzurro ricorda, invece, il mare attraversato dai crociati per portarsi in Terra Santa.

Addentrandoci più specificatamente nel simbolismo araldico degli “smalti”, ricordiamo che fra i “metalli”, l’oro rappresenta la Fede fra le virtù, il sole fra i pianeti, il leone nei segni zodiacali, luglio fra i mesi, la domenica fra i giorni della settimana, il topazio fra le pietre preziose, l’adolescenza sino ai vent’anni fra le età dell’uomo, il girasole fra i fiori, il sette fra i numeri e se stesso fra i metalli; l’argento rappresenta la Speranza fra le virtù, la luna fra i pianeti, il cancro nei segni zodiacali, giugno fra i mesi, il lunedì fra i giorni della settimana, la perla fra le pietre preziose, l’acqua fra gli elementi, l’infanzia sino a sette anni fra le età dell’uomo, il flemmatico fra i temperamenti, il giglio fra i fiori, il due fra i numeri e se stesso fra i metalli.

Fra i “colori”, invece, l’azzurro, smalto tipicamente mariano, rappresenta la Giustizia fra le virtù, giove fra i pianeti, il toro e la bilancia nei segni zodiacali, aprile e settembre fra i mesi, il martedì fra i giorni della settimana, lo zaffiro fra le pietre preziose, l’aria fra gli elementi, l’estate fra le stagioni, la fanciullezza sino ai quindici anni fra le età dell’uomo, il collerico fra i temperamenti, la rosa fra i fiori, il sei fra i numeri e lo stagno fra i metalli.

Ricordiamo, inoltre, che con il termine “al naturale” intendiamo tutte quelle figure che, caricate nello scudo, conservano il loro originario colore; nel nostro caso il leone marciano caricato al capo.

Ci preme evidenziare che fu necessario, altresì, creare dei segni convenzionali per comprendere ed individuare gli “smalti” dello scudo, quando lo stemma risulta riprodotto nei sigilli e nelle stampe in bianco e nero. Così gli araldisti, nel tempo, usarono vari sistemi; ad esempio, scrissero nei vari campi occupati dagli smalti, l’iniziale della prima lettera corrispondente al colore dello smalto, oppure individuarono i colori con l’iscrivere le prime sette lettere dell’alfabeto o, ancora riprodussero, sempre nei campi dello smalto, i primi sette numeri cardinali. Nel XVII secolo, l’araldista francese Vulson de la Colombière propose, invece, dei particolari segni convenzionali per riconoscere il colore degli smalti negli scudi riprodotti in bianco e nero. L’araldista padre Silvestro di Pietrasanta della Compagnia di Gesù, per primo, ne fece uso nella sua opera Tesserae gentilitiae ex legibus fecialium descriptae, diffondendone, così, la conoscenza e l’uso.

Tale sistema di classificazione, tuttora usato, identifica il rosso con fitte linee perpendicolari, l’azzurro con orizzontali, il verde con diagonali da sinistra a destra, il porpora con diagonali da destra a sinistra, il nero con orizzontali e verticali incrociate, mentre l’oro si rende punteggiato e l’argento senza tratteggio.

Per rappresentare il colore “al naturale” alcuni araldisti prevedono altri segni convenzionali, ma intendiamo sposare la tesi dell’araldista Goffredo di Crollalanza dove, per il colore “al naturale”, dopo aver ricordato che si può porre sopra metallo e sopra colore indifferentemente, senza ledere la legge della sovrapposizione degli smalti, chiarisce che si esprime nei disegni lasciando in bianco il pezzo e ombreggiando la figura nei luoghi acconci. 5)

Dello stesso avviso è stato anche l’insigne araldista arcivescovo Bruno Bernard Heim, che negli stemmi pontificali dei Papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I da Lui ideati, in quelli riprodotti in bianco e nero, nel capo patriarcale di Venezia raffigura il leone marciano senza alcun segno convenzionale, alla presenza di un capo tra i più famosi e belli.

LE FIGURE

La barca araldicamente simboleggia l’animo forte che resiste ai pericoli ed alle avversità della vita.

“La nave anticotestamentaria della salvezza fu l’arca, in cui Noè si salvò dal diluvio insieme ai suoi. (…) In linea generale la nave è un simbolo del viaggio, del passaggio, sia per i vivi sia anche per i morti. Il sentiero della nave in alto mare è uno dei quattro eventi che l’uomo non può comprendere (Pr 30,19), riferimento simbolico al cammino della vita umana attraverso le ingiustizie di questo mondo. Della massima importanza per la successiva attribuzione simbolica è stata la barca di Pietro.

Un giorno Gesù, mentre si trovava presso il lago di Genesaret, salì su una barca attraccata vicino alla riva, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca (Lc 5,3). Da questa barca, come dall’altra, guidata da Pietro nella tempesta (Mt 8,23-27; 14,24-34), è derivata la concezione della navata della chiesa, alla quale hanno contribuito anche le parole di Gesù sui pescatori di uomini (Mt 4,19; Mc 1,17). A Paolo era consueto il paragone della vita come un viaggio per nave; chi ripudia la fede e la buona coscienza farà naufragio, non raggiungerà cioè il vero scopo della vita (1Tm 1,19). Anche la speranza viene adombrata con un simbolo nautico, come un’ancora della nostra vita, sicura e salda (Eb 6,19).

Con immagini che ritornano di continuo, i Padri della Chiesa descrivono la nave della Chiesa, su cui il credente viaggia sicuro attraverso il mare del mondo. Nell’esperto timoniere Ippolito vede Cristo, nell’albero maestro la croce, nei due timoni i due testamenti, nella bianca vela lo Spirito Santo. Si incontra anche l’interpretazione secondo cui la nave nel suo insieme è un simbolo di Cristo crocifisso. Come nella costruzione della nave sono stati impiegati tre diversi tipi di legno, così vari esegeti parlano del triplice legno della croce. Senza la nave (di legno, tenuta insieme dai chiodi) non si può navigare il mare, e senza che Cristo sia inchiodato alla croce di legno non si può vincere il male di questo mondo. In epoca protocristiana, una colomba col ramo d’ulivo associata alla nave simboleggia l’anima che ha trovato la pace (… Il mosaico di Giotto con la navicella nell’atrio di san Pietro a Roma rappresenta la nave della Chiesa sul mare in tempesta)”. 6)

Ricordiamo, infine, che la barca caricata nello scudo del primitivo stemma del patriarca Angelo deriva dal sigillo di Elbing (1350). 7) La croce, presente alla sommità dell’albero della barca nello stemma del patriarca Angelo, è considerata la più antica tra le pezze onorevoli nell’araldica. Nasce dalla sovrapposizione di un palo ad una fascia ed è la figura maggiormente rappresentata negli scudi. La croce assunse nel tempo le forme più svariate e le colorazioni più disparate, quali l’aguzza, l’ancorata, l’anguifera, di Avellana, la bordonata, del calvario, a chiave, la forcuta, la gigliata, la latina, la greca, la ottagona, la patente, la patriarcale, la pomata, la ricerchiata, la ricrociata, la ritrinciata, la scalinata, la scorciata, di Santo Spirito, la ramponata, la stellata, la trifogliata. Il “decusse”, chiamato anche “croce di Sant’Andrea” o “traversa”, è la pezza che nasce, invece, dalla sovrapposizione di una banda ad una sbarra.

“Fra le interpretazioni simboliche della croce va messa in particolare evidenza quella della lettera agli Efesini (2,16): per mezzo della croce vengono riconciliate due parti contrapposte, il che in definitiva non vale soltanto per due epoche o due indirizzi della fede, ma anche per cielo e terra. Le quattro dimensioni della croce alludono all’universalità della salvezza; in riferimento alla crocifissione Gesù dice: Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,32).

In primo luogo la croce è segno di morte; Gesù è morto per tutti (2 Cor 5,14), ovvero con la sua morte il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui (Rm 6,6).

L’ambivalenza della croce la fa però anche divenire simbolo della redenzione, e quindi della vita. Con il sangue della sua croce Cristo rappacifica e riconcilia tutte le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli (Cl 1,20). Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui (Rm 6,8). Per i credenti la croce è segno della potenza di Dio, mediante la quale essi sono salvati (1Cor 1,18).

Essa è l’ultimo e supremo segno di vittoria. Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo (Gal 6,14). La disponibilità a portare la croce – un precetto per i discepoli del Signore – è immagine della rinuncia al proprio io: Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà (Mc 8,35). Alla fine dei tempi comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo (Mt 24,30).

Già i Padri della Chiesa cercarono dei testi dell’Antico Testamento da applicare in senso tipologico alla croce di Cristo. Così, ad esempio, Giustino martire riferisce alla croce l’albero della vita di Gen 2,9. Melitone di Sardi fu il primo a scorgere nel sacrificio del figlio di Isacco richiesto ad Abramo (Gen 22) un tipo del sacrificio di Cristo sulla croce. Efrem Siro raccomandò la croce come segno di vittoria sugli spiriti malvagi. In Gregorio di Nissa e Agostino si trova già un’interpretazione cosmologica della forma della croce. L’uomo con le braccia aperte – uno dei più antichi gesti di preghiera (cfr. Es 17,11) – divenne, in prospettiva simbolica, immagine della croce e del crocifisso. Già molto presto durante il battesimo veniva apposto il sigillo del nome di Cristo mediante una croce tracciata sulla fronte; secondo Ap 7,3 questo segno di croce è propriamente il sigillo dei servi di Dio. Durante la posa della prima pietra di una chiesa, sul luogo del futuro altare viene eretta una croce di legno. La pianta a forma di croce di numerose chiese (navata principale a transetto) viene interpretata, fin dall’inizio del secolo XIV, come immagine del crocifisso, che con le braccia aperte comprende tutto il mondo. (…) Tutta la letteratura e l’arte del medioevo dimostrano che nella fede cristiana la croce storica continua ad agire in senso soteriologico, in quanto segno dell’attualità della salvezza, e in senso escatologico, in quanto segno della speranza di salvezza. La croce, segno rappresentativo del Cristo quale Signore risorto e innalzato, a partire dal secolo XI si trova sempre sopra l’altare delle chiese”. 8)

Le tre bandiere, caricate sulla barca, simboleggiano la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.

La stella araldicamente rappresenta la mente rivolta a Dio, la finezza d’animo e azioni sublimi. Nell’araldica ecclesiastica la stella maggiormente usata è quella ad otto punte che simboleggia il Salvatore, pur riscontrandosi anche scudi prelatizi con stelle a sei punte. Ricordiamo, anche, che la stella ad otto punte o ottagona rappresenta le otto beatitudini evangeliche.

“Nelle armi si vede un gran numero di stelle che possono essere a cinque, sei, otto, fino a sedici raggi. Ordinariamente le stelle a cinque raggi sono più comuni in Francia, in Spagna, in Inghilterra, nel Belgio e in Polonia; quelle a sei in Germania ed in Olanda. In Italia si trovano spesso di tutte e due le sorti. Quelle di sette o più raggi sono meno usate. (…) Le stelle sono fra le figure più diffuse dell’araldica; ed è naturale che una figura sì bella e da tutti conosciuta sia stata adottata da tante famiglie. In Lombardia e Toscana erano un tempo contrassegno dei Guelfi; mentre in Romagna tre stelle in capo dimostravano che il possessore dell’arma era Ghibellino”. 9)

“Le armi portano con frequenza questo corpo celeste. Una stella fu guida sicura al nato Redentore, un’altra è sicura indicazione della strada a chi conduce la nave nella notte, due fatti che dovevano imporsi alla fantasia degli uomini quando vollero rappresentare la guida sicura verso il sicuro arrivo al porto spirituale od a quello materiale. Le stelle che splendono nel cielo della notte sono milioni di soli, altro simbolo di chi aspira a cose superiori, ad azioni sublimi. Avanti che sorga il sole, annunciatrice di questo e della luce, del giorno, della sua operosità, è la stella chiamata dagli antichi Lucifero, altra figurazione indicativa del luminoso avvenire auspicato alla propria discendenza”. 10)

“Fra gli astri ha sempre trovato particolare considerazione la stella del mattino, che annuncia la luce del sole, continuamente vittoriosa sull’oscurità della notte. (…) Le luci del cielo ubbidiscono alla legge del Creatore, e insieme ai figli di Dio gioiscono in coro le stelle del mattino (Gb 38,7). Ma un essere ha voluto porsi sullo stesso piano di Dio, e cioè Lucifero: Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?. Isaia in realtà in questo testo (14,12-13) si riferisce al re di Babilonia, il cui titolo era figlio dell’aurora, che col suo orgoglio imperiale voleva dimorare sul monte dell’assemblea, cioè nel cielo, sfidando Dio stesso. Il passo sarà poi dalla tradizione successiva giudaica e cristiana applicato agli angeli ribelli e al loro capo, chiamato appunto Lucifero, cioè stella del mattino. La stella mattutina della fine dei tempi è Cristo. Pietro ricorda ai fedeli la parola dei profeti, che come una lampada brilla in luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori (2Pt 1,19). Lo stesso Figlio dell’uomo nell’Apocalisse proclama in se stesso l’adempimento di tutte le promesse con questa immagine: Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino (22,16). Secondo sant’Ambrogio, a ragione Cristo è definito stella del mattino; infatti come questa al suo sorgere mattutino dà splendore al mondo, così anche Cristo, quando è venuto sulla terra, ne ha pienamente illuminato il volto. Con l’invocazione Ave, maris stella (Ti saluto, stella del mare), l’inno della Chiesa esalta la Madre di Dio, che sta al fianco dell’uomo, indicandogli la via. Dato che nella sua esistenza storica essa precede il sole Cristo, come l’aurora precede la luce del sole, così Maria diviene la stella del mattino, stella mattutina, delle litanie lauretane”. 11)

“Nel cielo notturno le stelle testimoniano la maestà del Creatore; egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome (Sal 147,4). Le stelle brillano di gioia per colui che le ha create (Bar 3,35). Esse possono divenire immagine della gloria celeste, ornamento splendente nelle altezze del Signore (Sir 43,9). Dio stesso le ha mostrate al patriarca Abramo come simbolo della sua progenie: Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle…Tale sarà la tua discendenza (Gen 15,6). Nel sogno di Giuseppe (Gen 37,9) le undici stelle sono probabilmente i segni dello zodiaco come simbolo delle dodici tribù d’Israele; Giuseppe stesso è la dodicesima stella. Nella visione di Daniele (12,3) i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre. Come combattenti per il diritto divino, dal cielo le stelle danno battaglia contro il generale Sisara (Gdc 5,20). Il sapiente Balaam, che ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, dichiara riguardo a Giuda: Io lo vedo, ma non ora, io contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe (Nm 24,17). E’ noto che questo testo è stato letto in chiave messianica dalla successiva tradizione. Ma gli israeliti sono esplicitamente ammoniti perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo, non siano trascinati a prostrarsi davanti a quelle cose e a servirle (Dt 4,19).

La venuta di Cristo sulla terra è annunciata ai magi d’Oriente da una stella (Mt 2,2). Quale quintessenza del cosmo Giovanni vede sette stelle nella destra del Figlio dell’uomo (Ap 1,16), le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese (Ap 1,20), ma le sette Chiese simboleggiano la Chiesa universale. In linea generale, le stelle sono simbolo dell’armonia cosmica creata da Dio, quale si manifesta all’uomo nel ciclo dello zodiaco; nella corona di dodici stelle sul capo della donna apocalittica (Ap 12,1) viene adombrato appunto lo zodiaco. Le stelle divengono infine immagine del giudizio divino, come quando l’Apocalisse (8,10s) parla della grande stella di nome Assenzio, che cade dal cielo ardente come una torcia. Ad un astro fu data la chiave del pozzo dell’Abisso; da questo uscirono cavallette dall’aspetto di cavalli; esse tormentavano gli uomini che non avevano il sigillo di Dio sulla fronte (Ap 9,1-12).

Nella sua prima lettera ai Corinzi (15,41s), Paolo fa un paragone con gli eletti: sole, luna e stelle non risplendono allo stesso modo: Ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti.

Nelle sculture sui sarcofaghi del primo cristianesimo, sulle lampade e sulle gemme, le stelle simboleggiano l’eterna beatitudine. La stella a sei punte è spesso nell’arte un simbolo mariano; i due triangoli che si intersecano alludono al ruolo di Maria, mediatrice fra cielo e terra”. 12)

Evidenziamo, a tal punto, che per la stella a sei punte, meglio conosciuta come stella di David, formata da due triangoli equilateri che hanno lo stesso centro e che risultano piazzati in opposte direzioni, si tramanda fosse la figura che adornava lo scudo del re David. Una diversa interpretazione le attribuisce, invece, un significato cabalistico. 13)

“La stella che simboleggia Cristo (stella di Natale) ha otto punte e nella sua quaternità è già un preannuncio della croce.” 14)

Il mare araldicamente simboleggia la clemenza, la generosità e la Grazia divina. “Dopo la creazione del cielo e della terra, le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque (Gen 1,2). Dio ha fondato la terra sui mari, e sui fiumi l’ha stabilita (Sal 24,2). Non solo il cielo dall’alto, ma anche l’abisso nel profondo può divenire un’immagine di benedizione divina (Gen 49,25). (…) Il mare è un’immagine spesso usata per il costante agitarsi dei popoli. Ah, il rumore di popoli immensi, rumore come il mugghiare dei mari (Is 17,12). Dio solo è in grado di far tacere il fragore del mare, il fragore dei flutti, di placare il tumulto dei popoli. Le acque presso cui l’autore dell’Apocalisse vide sedere la grande Prostituta, simboleggiano popoli, moltitudini, genti e lingue (Ap 17,15). Quando nelle parabole di Gesù il regno dei cieli è paragonato a una rete gettata nel mare (Mt 13,47) e gli apostoli a pescatori di uomini (Mc 1,17), il mare viene usato indirettamente come immagine del mondo, come l’insieme dell’umanità. (…) Già in epoca protocristiana incontriamo l’immagine della nave della Chiesa nel mare del mondo”. 15)[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 2″ tab_id=”1458549096707-7a247410-510f”][vc_column_text]

IL LEONE MARCIANO

Il leone fa parte dei quattro Viventi che il profeta Ezechiele così descrive nel Suo libro: “Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del Canale Chebàr, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine. Il cinque del mese – era l’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn – la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele figlio di Buzì, nel paese dei Caldei, lungo il canale Chebàr. Qui fu sopra di lui la mano del Signore. Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. Le loro gambe erano diritte e gli zoccoli dei loro piedi erano come zoccoli dei piedi d’un vitello, splendenti come lucido bronzo. Sotto le ali, ai quattro lati, avevano mani d’uomo; tutti e quattro avevano le medesime sembianze e le proprie ali, e queste ali erano unite l’una all’altra. Mentre avanzavano, non si volgevano indietro, ma ciascuno andava diritto avanti a sé. Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila. Le loro ali erano spiegate verso l’alto; ciascuno aveva due ali che si toccavano e due che coprivano il corpo. Ciascuno si muoveva davanti a sé; andavano là dove lo spirito li dirigeva e, muovendosi, non si voltavano indietro. Tra quegli esseri si vedevano come carboni ardenti simili a torce che si muovevano in mezzo a loro. Il fuoco risplendeva e dal fuoco si sprigionavano bagliori. Gli esseri andavano e venivano come un baleno. Io guardavo quegli esseri ed ecco sul terreno una ruota al loro fianco, di tutti e quattro. Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Quando essi si muovevano, esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Al di sopra delle teste degli esseri viventi vi era una specie di firmamento, simile ad un cristallo splendente, disteso sopra le loro teste, e sotto il firmamento vi erano le loro ali distese, l’una di contro all’altra; ciascuno ne aveva due che gli coprivano il corpo. Quando essi si muovevano, io udivo il rombo delle ali, simile al rumore di grandi acque, come il tuono dell’Onnipotente, come il fragore della tempesta, come il tumulto d’un accampamento.

Quando poi si fermavano, ripiegavano le ali. Ci fu un rumore al di sopra del firmamento che era sulle loro teste. Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve come pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane. Da ciò che sembrava essere dai fianchi in su, mi apparve splendido come l’elettro e da ciò che sembrava dai fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore il cui aspetto era simile a quello dell’arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia. Tale mi apparve l’aspetto della gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava”. 16)

La visione che San Giovanni descrive mirabilmente nell’enigmatico libro dell’Apocalisse è conseguente alla visione di Ezechiele, di cui ricalca numerosi elementi ed il leone è il primo Vivente ad essere descritto:

“Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito. Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c’era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono. Attorno al trono, poi, c’erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d’oro sul capo. Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio. Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d’occhi davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente, aveva l’aspetto d’uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola. I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere: Santo, santo, santo il Signore Dio, l’Onnipotente, Colui che era, che è e che viene!

E ogni volta che questi esseri viventi rendevano gloria, onore e grazie a Colui che è seduto sul trono e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a Colui che siede sul trono e adoravano Colui che vive nei secoli dei secoli e gettavano le loro corone davanti al trono, dicendo: Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono”. 17)

“Questi animali ricordano i Kâribu assiri (il cui nome corrisponde a quello dei cherubini dell’arca, cf. Es 25,18), esseri dalla testa umana, corpo di leone, zampe di toro e ali d’aquila, le cui statue custodivano i palazzi di Babilonia. Questi servi di dei pagani sono qui legati al carro del Dio di Israele: vivace espressione della trascendenza di Jahvè”. 18)

Queste quattro presenze cardinali costituiscono quindi i supporti mobili della vita della volta celeste, le assise del trono prestigioso della Maestà Divina.

“Si riconosce la cosmografia degli antichi: la volta trasparente e solida del firmamento, il trono divino posto al di sopra della volta nel punto più alto, cioè nel polo. La stessa campana celeste si regge sulle quattro costellazioni cardinali della banda zodiacale: il Toro, il Leone, l’Uomo e l’Aquila che i nostri vecchi testi citano più spesso che il vicino Scorpione. La tradizionale simbologia mesopotamica del Dio dell’universo rivela la sua ampiezza. Ezechiele a sua volta la riprende anche se, con la sovrana libertà dei profeti di Iahvè, la piega secondo la necessità del suo messaggio”. 19)

“Si tratta evidentemente dell’analogia tradizionale tra le quattro figure in questione e i segni zodiacali del cielo delle stelle fisse, che sono il toro, il leone, lo scorpione e l’acquario (i segni mediani relativi alle quattro stagioni). Lo scorpione succede all’aquila, l’acquario al toro. Inoltre i quattro Evangelisti verranno posti in relazione con i quattro Cherubini, gli angeli che circondano il trono divino; a partire dal V secolo risulta comune l’identificazione col tetramorfo chiaramente legata all’influsso delle dottrine astrologiche”. 20)

Motivo di riflessione anche il seguente accostamento tra i quattro Viventi, le tribù d’Israele e il nome divino:

“Le dodici tribù d’Israele sono state spesso messe in rapporto con i dodici segni dello zodiaco che il sole percorre in un anno. Il campo ebreo è un cosmo sacralizzato; è orientato verso est come sarà il tempio di Gerusalemme, il tempio di pietra che rimpiazzerà quello mobile provvisorio dell’Esodo che ne costituiva la prefigurazione. La disposizione fondamentale delle dodici tribù raccolte in quadrato, tre per tre ad ogni punto cardinale, rimarrà nella pianta del tempio ideale immaginato da Ezechiele, e infine nella Gerusalemme celeste descritta da san Giovanni nell’Apocalisse; è quest’ultima che appare in nuce, ridotta alla sua più semplice espressione nella disposizione dei quattro Viventi che circondano il trono dell’Eterno, nella grande visione inaugurale del capitolo IV. A questo punto siamo pronti ad addentrarci più in profondità nel simbolismo di questa disposizione. Vedremo che essa è in rapporto con il carro divino di cui molte religioni hanno fatto il trono della divinità e il punto cosmico in cui si uniscono le peculiarità delle quattro direzioni cardinali. Ezechiele riuscirà ad introdurre anch’egli nel suo libro il concetto di carro di Iahvè che è necessario illuminare con la simbologia giudaica. Date le analogie che legano lo zodiaco alle dodici tribù d’Israele, sarà interessante apprendere da un targoum dello Pseudo-Gionata che le tribù si raggruppavano per tre sotto lo stesso emblema. C’erano, dunque, quattro emblemi che erano precisamente quelli del tetramorfo: Issachar, Zabulon, Giuda: leone; Ruben, Simeone, Gad: uomo; Efraim, Manasse, Beniamino: toro; Dan, Aser, Neftali: aquila (…) La tradizione giudaica fa corrispondere a ciascuno di essi le quattro lettere del nome divino [YHVH]: Y corrisponde all’uomo; H al leone; V al toro e la seconda H all’aquila. Questo carro simboleggia le azioni divine nel mondo, è un’altra espressione della rivelazione naturale o cosmica, la Volontà del Verbo che agisce sul mondo sensibile come sul mondo soprannaturale; essa determina e mantiene ogni cosa (Hani). Ritroviamo dunque nell’ordine della simbologia giudaica ciò che abbiamo già largamente riscontrato nell’ordine dei grandi simboli naturali: il rapporto costante e naturale fra l’uno trascendente (YHVH, il polo celeste) e la quaterna della sua manifestazione e azione nel mondo creato”. 21)

Sant’Ireneo, (sec. II) per primo, interpreta i quattro Viventi con un accostamento tutto personale. Per Lui il leone simboleggia l’Evangelista San Giovanni, il vitello San Luca, l’uomo San Matteo e l’aquila San Marco. 22)

Lo stesso “ha ampiamente trattato le qualità specifiche dei simboli degli Evangelisti confrontandoli con il tetramorfo, non ha però discusso in dettaglio la questione, occupandosi solo del quadruplice senso del Vangelo: il leone esprime la qualità regale, il bue il sacrificio, l’uomo l’incarnazione e l’aquila il pneuma divino che sorregge la chiesa”. 23)

“L’interpretazione che Sant’Ireneo ha dato del tetramorfo e che la Chiesa ha fatto sua, si colloca nella stessa prospettiva sul prolungamento di questa linea. Nella misteriosa apparizione dispiegatasi dal cielo semiaperto, in mezzo ai quattro Viventi, Ireneo riferendosi ai simboli tradizionali dell’universo nell’antichità ha riconosciuto la manifestazione universale di Dio agli uomini accorti, essendo quella la figura dell’annuncio di Cristo al mondo attraverso i quattro Vangeli. «Non è ammissibile – egli spiega – che ci siano più di quattro vangeli o meno di quattro perché sono quattro le regioni del mondo in cui viviamo, e quattro i venti ai quattro punti cardinali… Da ciò si deduce che il Cristo artefice dell’universo, Lui che è seduto sui cherubini (i Viventi della visione) e che mantiene tutto unito, una volta manifestato agli uomini, ci ha dato il Vangelo in quattro forme pur esprimendo un solo Spirito… i cherubini hanno effettivamente quattro figure (leone, toro, aquila, uomo) che sono le immagini dell’attività del Figlio di Dio». Ireneo espone successivamente il gemellaggio degli evangelisti con i Viventi; evidentemente, esso non può che essere arbitrario e rivestire in realtà un certo interesse solo per quanto riguarda l’iconografia; dopo una leggera modificazione, questo gemellaggio si è perpetuato attraverso le epoche, fino a noi. L’aquila fu attribuita a Giovanni, il toro a Luca, il leone a Marco e l’angelo-uomo a Matteo.

Un bel testo d’Ippolito di Roma, morto martire nel 235, opera la sintesi di quanto detto con la simbologia dei fiumi del Paradiso. Eden è il nome del nuovo giardino di delizie… Scorre nel giardino un fiume d’acqua inesauribile. Quattro fiumi ne sgorgano, che irrorano tutta la terra. Così è della Chiesa. Cristo che è il fiume è annunciato al mondo dai quattro vangeli (Comment. Daniele 1,17). L’immagine del mondo ereditata dall’antichità è diventata l’immagine cristiana del cosmo evangelizzato. Questo mondo emana da Cristo artigiano dell’universo, centro della nuova creazione, seduto su un trono circondato dai quattro Viventi, orientato verso i quattro punti cardinali simboleggianti la diffusione del messaggio dei quattro evangelisti nei quattro angoli del mondo”. 24)

San Girolamo (sec. IV), da cui nasce tutta la tradizione sulle interpretazioni dei quattro Viventi, assegna infatti a San Giovanni l’aquila, per l’acutezza teologica del linguaggio, a San Matteo l’uomo perché inizia il Suo Vangelo con la genealogia di Cristo, a San Luca il vitello perché il Vangelo inizia con il sacrificio al tempio di Zaccaria, padre di San Giovanni il Battista e a San Marco il leone perché il Suo Vangelo inizia con le tentazioni di Gesù nel deserto. 25)

“Il pensiero teologico occidentale, spogliando le immagini del loro valore di parabola orientale, vide in quei simboli la personificazione di determinate idee, li trasformò in geni ispiratori e ben presto in intermediari fra Dio e gli evangelisti, ai quali avrebbero suggerito il significato teologico celato in ciascun Vangelo. San Gregorio (+ 604) scrive al riguardo: Quegli animali si attagliano perfettamente ai quattro evangelisti, poiché il primo ha descritto la nascita di Cristo secondo la natura umana; l’altro la purezza dell’offerta del sacrificio, rappresentata dal toro, abituale vittima dei sacrifici; il terzo la sua forza e la sua potenza, simboleggiante dal ruggito del leone; il quarto la nascita eterna del Verbo: come l’aquila è capace di fissare il sole nascente. Lo stesso autore aggiunge: «Questi animali possono raffigurare anche il Salvatore stesso, che ha preso la nostra natura; si è fatto sgozzare come le vittime d’un tempo; leone terribile, con la sua potenza ha infranto i legami della morte; infine, come l’aquila si è innalzato nei cieli con la sua ascensione». Proseguendo sull’abbrivio, gli esegeti addomesticheranno la Bibbia simulando che i contenuti teologici da essi dedottine vi siano stati introdotti dai misteriosi intermediari fra Dio e i Vangeli.

Su di una vetrata della cattedrale di Brou si può vedere la marcia trionfale del Salvatore: il suo carro è tirato dagli animali del tetramorfo; essi svolgono dunque un ruolo attivo nella glorificazione di Cristo! Bossuet andrà ancora più lontano: Con questi quattro animali – afferma – si possono intendere i quattro evangelisti…; ma negli evangelisti, principali scrittori del Nuovo Testamento, sono compresi tutti gli apostoli e tutti i santi dottori che hanno illuminato la Chiesa con i loro scritti… Nei quattro animali si manifestano quattro qualità principali dei santi: nel leone, il coraggio e la forza; nel bue, che porta il giogo, la docilità e la pazienza; nell’uomo, la saggezza; nell’aquila, l’elevatezza dei pensieri e dei desideri. Ed ecco che il tetramorfo, di cui Bossuet vorrebbe fare lo strumento del quale Dio si sarebbe servito per foggiare la Chiesa Cattolica, finisce per diventare qui niente più che il simbolo di qualche virtù cristiana.

Ci si accosta di più al vero senso simbolico del quadruplice segno dicendo che l’uomo di Matteo parla d’incarnazione, il leone di Marco evoca la potenza e la regalità di Cristo, il toro ne ricorda il sacrificio, ma anche l’unicità del suo sacerdozio, più alto di quello del Grande Sacerdote; l’aquila, infine, allude all’interpretazione dello Spirito Santo. Questa lettura appartiene a un antichissimo documento bizantino, che si premura di aggiungere che il tiro a quattro dev’essere unito per poter tirare la quadriga divina, come dire che vi è una profonda unità fra i Vangeli.

Quanto alle diverse rappresentazioni del tetramorfo, si nota che da principio e per molto tempo ancora gli evangelisti sono raffigurati con il relativo libro sulle ginocchia, su di un leggio o su di una tavola; hanno la penna in mano, mentre al loro fianco appare il rispettivo simbolo, che è semplicemente un uomo, un leone, un toro o un’aquila. I simboli hanno un valore meramente denotativo, permettendo di sapere di quale evangelista si tratti. Dotandoli di ali, dopo aver riletto le visioni di Ezechiele e dell’Apocalisse (è così che l’uomo di Matteo diventa un angelo), fu conferita loro una specifica personalità; divennero messaggeri divini, e come tali furono rapidamente dotati di un nimbo. Lo riscontriamo già in testimonianze sparse del V secolo, per esempio in un mosaico dell’arco di San Paolo sulla via d’Ostia. Ma la frequenza maggiore si ha nel VI secolo, come in San Vitale a Ravenna. In generale anche gli evangelisti sono aureolati, eccezion fatta per San Giovanni, che non reca l’aureola, mentre l’aquila sì, fino al XIII secolo, significando l’umiltà di colui che non volle che il suo nome apparisse nel suo Vangelo.

La presenza di un personaggio cui veniva attribuita tale importanza a lato di ogni evangelista divenne ingombrante per il pensiero teologico cristiano. Due intermediari fra Dio e la sua parola scritta erano troppi. Per riguadagnare una certa unità, fu rivalutata l’idea di un segno puramente denotativo, sopprimendo le ali dei quattro simboli. Il tentativo di unire il simbolo e il personaggio da esso rappresentato diede luogo alla sostituzione della testa dell’evangelista con quella del proprio simbolo, generando la mostruosità di personaggi umani con la testa di leone, di toro o d’aquila, ma si trattò semplicemente di una moda effimera. Venne quindi soppresso l’evangelista, ritenendo sufficiente lasciare solo l’emblema. Tuttavia questo recuperò le ali, che implicano l’idea del soprannaturale, e riguadagnò l’aureola. Ma presto l’aureola fu di nuovo soppressa, mentre fra le mani o fra le zampe compariva il libro del vangelo, poi ridottosi a una striscia e quindi soppresso anch’esso. È in questo modo che si giunge al tetramorfo scolpito nel timpano del vestibolo centrale di molte cattedrali del XIII secolo: i quattro simboli alati circondano Cristo assiso in una mandorla.

La figura significa: ecco che vi accoglie il Cristo dei Vangeli, non il Cristo d’una leggenda o d’una filosofia”. 26)

E il poeta cristiano Celio Sedulio (sec. V) esprimerà con questo verso l’interpretazione di San Girolamo per quanto attiene San Marco: “Marcus ut alta fremit vox per deserta leonis”. Ricordiamo inoltre che: “i quattro simboli degli Evangelisti furono posti in relazione con i quattro grandi profeti dell’Antico Testamento (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele) e con i dottori e i padri della Chiesa (Agostino, Ambrogio, Gerolamo e Gregorio Magno). Senza alcun dubbio la scelta della maestà, della forza, della vista e della mobilità risale, nelle creature in cui sono personificate (leone, toro, aquila, angelo), a temi antichissimi. Tradizionale è infatti la correlazione con le quattro virtù cardinali: Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza. La rappresentazione simbolica degli Evangelisti nella figura di quattro filosofi romani togati con libro e leggio, diviene usuale già nel primo medioevo. In altri testi i Vangeli vengono posti in relazione con i quattro fiumi del paradiso”. 27)

La scritta PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS, che appare nel libro aperto sostenuto dal leone marciano, trae origine dalla leggenda secondo la quale quando l’evangelista Marco ebbe, per incarico di San Pietro, evangelizzato Aquileia, nel tornare a Roma una tempesta sospinse la sua nave nella laguna di Venezia, facendola incagliare proprio nella sabbia delle solinghe ed ancora disabitate isole di Rialto.

L’evangelista, scampato alla furia dei marosi e dei venti, scese a terra e si addormentò. Gli apparve in sogno un angelo del Signore, che gli disse: PAX TIBI MARCE, EVANGELISTA MEUS, HIC REQUIESCET CORPUS TUUM… Pace a te Marco, mio evangelista, e sappi che qui un giorno riposerà il tuo corpo. Ti sta davanti un’ancor lunga via, o evangelista di Dio, e molte fatiche dovrai sopportare nel nome di Cristo. Ma dopo la tua morte il popolo credente che abiterà questa terra edificherà in questo luogo una città meravigliosa e si paleserà degno di possedere il tuo corpo… . 28)

“La Repubblica di Venezia usò sui suoi stendardi, nei secoli XII e XIII, l’immagine di san Marco (la prima citazione è del 24 luglio 1177), cui venne a sostituirsi il simbolo dello stesso santo, in forma leonina, nei primi anni del secolo XIV. Il leone fu dapprima piccolo, di forma rozza, ora intiero ora a mezzo corpo, di color rosso in campo bianco. Solo verso il mezzo del secolo cominciò a comparire la bandiera di campo rosso (più visibile in mare) e il leone, divenuto d’oro, andò perfezionandosi nel disegno. La Serenissima però non codificò mai ufficialmente la sua araldica, sì che leone e bandiera furono rappresentati in modo assai vario, fino alla loro scomparsa, avvenuta nel maggio del 1797”. 29)

Ricordiamo, infine, che l’insegna araldica del Patriarcato di Venezia è : “d’argento al leone alato di San Marco, al naturale, col libro”, 30) mentre i patriarchi veneziani la caricano al capo dei loro scudi; specie nel passato, i vescovi originari di Venezia o del Triveneto caricavano, invece, nei loro stemmi il capo di San Marco “di rosso al leone marciano passante col libro, il tutto d’oro”.

Come l’uomo, così il simbolo è anche ciò che è stato per essere autenticamente ciò che sarà. Necessita quindi fare memoria e speranza di questa sorgente ricchissima e inesausta, a cui è possibile attingere ancora per il nostro oggi.

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1) Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1999, p. 335.

2) P. F. degli UBERTI, Gli Stemmi Araldici dei Papi degli Anni Santi, Ed. Piemme, s. d.

3) da L’Osservatore Romano, 31 marzo 1969.

4) L’insigne araldista Sua Ecc. za Rev. ma mons. Bruno Bernard Heim per lo stemma patriarcale così recita: “I patriarchi ornano il loro scudo con un cappello di color verde dal quale scendono due cordoni pure verdi che terminano in quindici fiocchi verdi per ciascun lato”.

B. B. Heim, L’Araldica della Chiesa Cattolica, origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, p. 106.

5) G. Crollalanza (di), Enciclopedia araldico-cavalleresca, Pisa 1886, p. 28, voce Al naturale.

6) M. LURKER, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, pp. 130-131, voce Nave.

7) G. C. Bascapè – M. Del Piazzo, con la collaborazione di L. Borgia, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medioevale e moderna, Roma 1983, p.14.

8) M. LURKER, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, cit., pp. 64-66, voce Croce.

9) G. Crollalanza (di), Enciclopedia araldico-cavalleresca, , cit., p. 561, voce Stella.

10) P. GUELFI CAMAJANI, Dizionario Araldico, Milano 1940, pp. 521-522, voce Stella.

11) M. LURKER, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, cit., pp. 203-204, voce Stella del mattino.

12) Ibidem, pp. 204-205, voce Stelle.

13) “The use of the hexagram as an alchemical symbol denoting the harmony between the antagonistic elements of water and fire became current in the later 17th century, but this had no influence in Jewish circles. Many alchemists, too, began calling in the shield of David (traceable since 1724). But another symbolism sprang up in Kabbalistic circles, where the ‘shield of David’ became the ‘shield of the son of David’, the Messiah”. (Encyclopaedia Judaica, Gerusalemme 1971, vol. 11, p. 696, voce Magen David).

14) M. LURKER, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, cit., p. 205, voce Stelle.

15) Ibidem, pp.122-123, voce Mare.

16) Ez 1,1-28.

17) Ap 4,1-11. 18) La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1974, p. 1826, (nota a Ez 1,10).

19) G. De Champeaux – S. Sterckx, I simboli del medio evo, Milano 1981, p. 444.

20) H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano 1991, p. 175.

21) G. De Champeaux – S. Sterckx, I simboli del medio evo, cit., p. 443.

22) Adv. Haer. III, 11,8.

23) H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, cit., p. 176.

24) G. De Champeaux – S. Sterckx, I simboli del medio evo, cit., pp. 443-444.

25) Comm. in Mt, Prol.
Comm. in Ez 7 ss.

26) E. Urech, Dizionario dei Simboli Cristiani, Roma 1995, pp. 247-249.

27) H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, cit., p. 176.

28) G. Aldrighetti – M. De Biasi, Il Gonfalone di San Marco, Venezia 1998, p. 38.
G. Aldrighetti, Il Leone di San Marco, Venezia 1995.

29) G. C. Bascapè – M. Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medioevale e moderna, cit., p. 460.

30) Ibidem, p. 338.

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Ideazione, blasonatura ed esegesi a cura dell’araldista Giorgio Aldrighetti, socio ordinario dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano.

Bozzetti araldici a cura del blasonista Sandro Nordio.[/vc_column_text][/vc_tta_section][/vc_tta_pageable][/vc_column][/vc_row]